Rapporto dell’Osservatorio AUB
Ancora una volta le imprese familiari, nonostante il Covid, la crisi finanziaria e la guerra hanno continuato a supportare l’economia nazionale. Viene cosi ulteriormente smentita la leggenda che avvolge queste aziende secondo la quale si tratterebbe di piccole iniziative, gestite artigianalmente, poco proiettate verso l’internazionalizzazione e per niente propense all’innovazione. Questi pregiudizi sono stati smentiti sul campo in occasione della scomparsa di Silvio Berlusconi. Un imprenditore che ha costruito un impero che supera i 6 miliardi di euro, ma che non resta un fenomeno isolato, perché a lui se ne aggiungono altri come: Leonardo Del Vecchio con gli occhiali, che ha creato una multinazionale e poi l’Esselunga di Bernardo Caprotti, De Agostini Gtech della famiglia Boroli – Del Drago, Riso Gallo della dinastia Preve, Giorgio Armani dell’omonimo stilista, ma anche Nice, la società quotata fondata da Lauro Buoro, Umbra Cuscinetti guidata da Antonio Baldaccini, Brembo di Alberto Bombassei, Betty Blue di Elisabetta Franchi, Campari presieduta da Luca Garavoglia, Branca guidata da Niccolò Branca, la Lavazza, la Tod’s della famiglia Della Valle, la Batam conosciuta come Nero Giardini, dei Flli Bracalente. Si pensi che quattro aziende su cinque nella moda sono a conduzione familiare. Ma anche in altri Paesi, non poche tra le maggiori imprese mondiali sono a controllo famigliare: la più grande per fatturato, Wal Mart, è per l’appunto una impresa famigliare.
Non è quindi vero che la famiglia impedisce all’azienda di crescere, o almeno non sempre. La famiglia esprime spesso una capacità di resistenza, anche nelle circostanze avverse. Un esempio: nella crisi che colpì l’industria automobilistica americana dopo il 2008, l’unica delle tre grandi case di Detroit, che non fece ricorso agli aiuti dello Stato, fu la Ford, che registra tuttora la presenza determinante, nel capitale e nel board, della famiglia del fondatore.
In Italia, nello stesso settore automobilistico, dopo la scomparsa di Gianni e Umberto Agnelli la famiglia decise di non cedere l’azienda in un momento difficilissimo e pochi anni dopo è stata protagonista del recupero di Chrysler, una delle società automobilistiche americane.
Il bilancio positivo è stato anche confermato recentemente da Cristina Bombassei nuova presidente dell’Aidaf, l’Associazione delle imprese familiari, secondo la quale: “Le imprese familiari sono cambiate durante la pandemia, soprattutto è cambiato il modo in cui vengono percepite. Ci si è resi conto di che capacità di reazione abbiano, l’ultimo “Osservatorio Aub” ha mostrato come abbiano risposto alla crisi meglio di altre in Italia. Di fronte alle difficoltà ha spesso prevalso l’attenzione, l’impegno del buon padre di famiglia che vuole lasciare un’impresa sana dopo di sé. Hanno prevalso le decisioni ponderate, ma anche il sapersi prendere un rischio, il voler buttare il cuore oltre l’ostacolo. Non c’è stato il freno tirato. Le aziende familiari hanno dimostrato che si può fare bene e di più, in un momento di crisi”. E poi ha proseguito: “Le imprese familiari sono un tessuto fondamentale del Paese. Serve più attenzione verso di loro, con interventi sull’occupazione giovanile, percorsi di rafforzamento delle filiere anche sui temi della responsabilità sociale, di accompagnamento nella transizione ecologica. Il taglio del cuneo fiscale è un’iniziativa utile, ci auguriamo sia resa permanete perché aiuta sia le imprese sia i lavoratori”.
Per le aziende familiari italiane, la ripresa è stata potente, ben gestita dagli imprenditori, grazie anche ai rapporti con i lavoratori. La XIV edizione dell’Osservatorio AUB dell’inizio di questo anno promosso da AIDAF (Associazione Italiana delle Aziende Familiari), Cattedra AIDAF-EY di Strategia delle Aziende Familiari (Università Bocconi), Unicredit, con il supporto di Borsa Italiana, Fondazione Angelini e Camera di Commercio di Milano Monza Brianza Lodi, che ha monitorato tutte le aziende familiari italiane che hanno superato la soglia di fatturato di 20 milioni di euro, ha confermato, analizzando struttura e performance di 8,589 gruppi familiari, la grande rilevanza delle aziende familiari, che rappresentano il 65% (pari a 11.635) del totale delle imprese italiane.
Nel 2021 le aziende familiari hanno registrato un “rimbalzo” dei ricavi pari a oltre il 20% superiore a quello delle imprese non familiari. Il medesimo trend è stato confermato anche nel primo semestre 2022. Nel 2021 la redditività netta delle aziende familiari ha superato il valore del 2019 (ROE 2021 pari a 13.6% versus 13.0% del 20219). Il medesimo trend è stato confermato anche nel primo semestre 2022.
Dal punto di vista geografico, interessanti sono le performance di alcune grandi regioni del Sud come Calabria, Campania e Sicilia. Dal punto di vista dei settori: Elettronica, mezzi di trasporto, sistema moda e mobile e arredo presentano i tassi di redditività netta più elevati e si coniugano con l’aumento dell’occupazione che, per tutte le aziende familiari, è cresciuta del 3.8% dal 2019 al 2021. La solidità media di tutte le aziende familiari italiane è migliorata di oltre il 20% rispetto al 2019: il rapporto di indebitamento (totale attivo/patrimonio netto) è sceso da 5 a 4 volte. La percentuale di aziende familiari con situazione finanziaria problematica si è ridotta di 6 punti scendendo dal 30% al 24%. Il miglioramento rispetto alla situazione alla fine del 2011 è molto più sensibile: la percentuale di aziende familiari con situazione finanziaria problematica si è ridotta di 14 punti scendendo dal 38% al 24%.
In conclusione anche dopo ogni crisi l’impresa familiare risulta fortissima e non solo per i valori che incarna, ma anche e soprattutto perché ha un azionariato più stabile che da più garanzie sul lungo termine; proprio perché non è legata ai valori di borsa e perché è fortemente legata al territorio d’appartenenza.
Questo significa che sono le imprese familiari a dare continuità e stabilità ad una politica economica, perché il controllo familiare si traduce in vantaggio competitivo per l’ottica di lungo termine.
Le aziende familiari inoltre tendono ad essere meglio patrimonializzate. Il loro indebitamento è in media inferiore rispetto alle concorrenti, così come inferiore è la quota di utili destinata ai dividendi perché si preferisce lasciarli in azienda. Oltretutto si fanno in genere maggiori investimenti.
Questa maggiore attenzione alla solidità di bilancio produce una crescita maggiore di fatturato, di margini e flussi di cassa.
Dunque il capitalismo familiare non è più considerato come un’eccezione rispetto ad altri modelli e le aziende a controllo familiare non sono affatto in via di estinzione anche in Europa. Anzi. E rappresentano, come si è visto, un volano di crescita che durante la crisi hanno fatto registrare performance migliori e perdite più contenute rispetto alle altre imprese.
Per riassumere alcuni fattori in particolare rendono competitive questo tipo di imprese: 1) Capitale “paziente”: la famiglia proprietaria è capace di subordinare i propri personali interessi di breve termine all’obiettivo dello sviluppo di lungo periodo; 2) governance professionale e disciplinata: i familiari sanno ben distinguere tra i ruoli di socio, amministratore e manager e aprono i consigli di amministrazione al contributo di amministratori non familiari; 3) Leadership aziendale scelta secondo criteri meritocratici: superata la fase del fondatore, la scelta del nuovo leader avviene sulla base di un processo di selezione che eviti accuratamente il rischio del nepotismo; 4) Cultura del “valore condiviso”: in cui l’imprenditore e la sua famiglia hanno saputo condividere i propri valori e anche i frutti del proprio lavoro con i dipendenti e la comunità.
La famiglia, come si vede, difende a tutti i costi l’azienda in cui si identifica, sia perché rappresenta per essa un valore non soltanto finanziario, sia perché ne conosce meglio degli esterni le capacità di recupero. Nell’impresa familiare conta molto anche il desiderio di preservare la reputazione e di assicurare il controllo alle generazioni successive e questo induce a una maggiore dedizione, una maggiore responsabilità e tiene bassa la conflittualità tra proprietà e lavoratori. Volontà di questo tipo difficilmente si trovano nelle società a capitale diffuso, in cui i manager hanno convenienza a decidere in base alle quotazioni di borsa ed agli interessi degli azionisti, cioè in base al profitto immediato, facendoli prevalere su ogni considerazione di lungo termine.
Uno dei problemi decisivi per il destino delle aziende familiari, però, è quello della successione. La staffetta tra padri e figli è il momento della verità per l’azienda, la famiglia, i manager.
È meglio puntare sulla continuità familiare col rischio che i familiari non siano all’altezza del compito, oppure è meglio affidarsi a professionisti esterni, se non addirittura vendere e passare la mano?
Il problema del capitalismo familiare spesso sono proprio gli eredi perché riluttanti ad assumere la guida delle aziende. Non c’è da sorprendersi, perché si tratta di scegliere tra vivere comodamente di rendita, sperperando il patrimonio accumulato dai padri e vivere lavorando sodo, con grandi responsabilità e la probabilità di fare peggio di chi li ha preceduti. Si sceglie perciò la seconda opzione solo quando si è ricevuta un’educazione imprenditoriale, altrimenti è facile e comodo scegliere la prima, sopratutto quando l’impatto fiscale non aiuta. Il legislatore perciò dovrebbe prevedere adeguate misure per agevolare questo tipo di successioni.
La sfida perciò per i capifamiglia non è “passare” semplicemente l’azienda, bensì generare nuova capacità imprenditoriale di cui l’azienda si nutre, e sopratutto, trasmettere valori e la consapevolezza che anche oggi le aziende familiari vanno di moda e piacciono ai manager per la loro visione di lungo termine, ai politici perché creano posti di lavoro relativamente più sicuri ed all’opinione pubblica perché mantengono un legame con le comunità locali.